NATALE TEDESCO ovvero IL GIGANTE BUONO (memorie di uno studente)

Natale Tedesco (1931-2016)

di Davide Torrecchia

(Docente di scuola secondaria, dottore di ricerca in Italianistica, cultore della materia per Letteratura italiana presso UniPa)

Autunno 1993, (ex) facoltà di Lettere e filosofia di Palermo, aula Columba.

Chi l’avrebbe mai detto cinque anni prima, ad uno spaurito alunno fresco d’esami di terza media, incerto sull’avvenuta seppur immatura scelta della scuola superiore… Chi l’avrebbe mai detto di “trovarsi” lì, seduto su quella sedia reclinabile, i gomiti poggiati sul lungo banco: fatica a crederlo possibile, tenendo a freno un tremore canino più vicino al guaito euforico.

Gli altri studenti ed io, sì, proprio io, attendiamo l’inizio della prima lezione del primo corso di letteratura italiana. La grande aula è strapiena, alcuni siedono sui gradini, altri per terra. Attendiamo; già sapendo – anche solo per sentito dire – che all’università dovremo abituarci al cosiddetto “quarto d’ora accademico” dei docenti. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, si suol dire. In fondo, se guardiamo ai difetti, siamo tutti uguali; sono i pregi a fare la differenza, a renderci originali, unici. Non ci avevo pensato.

Con fare deciso oltrepassa la soglia un uomo alto, tanto che le spalle gli si curvano lievemente. Robusto, la carnagione chiara, un po’ arrossata dal sole; capelli e baffi un tempo sul biondo-fulvo. Occhi cerulei, in apparenza distratti, immersi in pensieri di cui non si voglia perdere il filo; ma penetranti – quantunque bonari, sornioni – non appena fissino qualcosa o qualcuno, come per farne all’istante la radiografia.

La pronuncia è vagamente blesa, il tono forte, a tratti umorale, appassionato; in una parola: regale, come tutto il contegno. Un’immagine di fiera accovacciata, (s)finge all’erta.

Certo nervosismo, insofferenza alle meschinità umane, da leone ferito, si stempera nel momento della dedizione, concentrandosi in un moto interiore che coinvolge, emozionando(si).

Fu così che scoprimmo il canto sommesso e corale dei Malavoglia; le auscultazioni angosciose e irrimediabili di Rubè; l’incedere della Messa di nozze, concentrico e ascendente come il Canone in Re Maggiore di Pachelbel; la fastosa processione funebre tardo-barocca di un viceré di Sicilia e le torture ad una mente illuminata, inflitte dal Tribunale di piazza Marina in un misto di putrescenze e gelsomini, così tipico della nostra “sicilianità”, nel Consiglio d’Egitto.

Il lamento virile di Buttitta (« Un populu, / diventa poviru e servu, / quannu ci arrobbanu a lingua… ») e la voce di altri poeti, fino ad allora a me sconosciuti (Cattafi, Farinella, Giardina, Piccolo, Pignato, Reale, Uccello, in Poeti siciliani del Novecento, 1995).

Lo sguardo di Serafino Amabile Guastella, intellettuale  « aristocratico e sociologo » da accostare a Verga (Introduzione a Le parità e le storie morali dei nostri villani, 1995, p. 28); e quello di Emanuele Navarro della Miraglia, « poco noto perché schiacciato tra i grandi del naturalismo siciliano, ma che già, in certo senso, superava il naturalismo in direzione di Pirandello » (Storielle siciliane, 1992, risv. di cop.).

Tragicomica resta nella memoria l’espressione sul volto dei miei colleghi di corso (nei quali mi rispecchiavo), vero e proprio “terror Dei” nei confronti del volume Settecento in Sicilia. L’ilare melanconia e la rivoluzione felice (1993). Turbamenti studenteschi che si diffondevano con la facilità di un sospiro; in seguito, dissipati da attente (ri)letture. Quale allievo non ha mai crocifisso il proprio insegnante?

A ben guardare o, meglio, lèggere, ci si sentiva trasportati sulle ali di un possente rapace dall’occhio infallibile, meticoloso, tagliente. E la rarefazione delle altezze – o profondità (che poi sono la stessa cosa) – dava in effetti stordimento, a noi profani matricolini.

Vengono in mente le parole di Consolo:

[…] ora noi leggiamo questa chiocciola per doveroso compito, con amarezza e insieme con speranza, nel senso d’interpretare questi segni loquenti sopra il muro d’antica pena e quindi di riurto: conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire. (V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, 1976, pp. 115 e 119-120).

Sì, era questo il senso del fare critico e letterario del Prof. Natale Tedesco (1931–2016), la spinta che ne muoveva l’intelligenza.

Si vedano, per esempio, indagini e riflessioni sulla Coscienza letteraria del Novecento. Gozzano, Svevo e altri esemplari (1999), dove tra l’altro sono riportate indicativamente le parole dello scrittore triestino su Joyce: « Quando un artista ricorda, subito crea » (pp. 119 e 137).

Dal testo del Professore, poc’anzi citato:

…[l’autore] mostra il controllo che della passione, del vivere e del reale, egli attinge nell’esercizio dell’osservazione lucida e spietata, polemica ma umanissima… (p. 109)

…interscambio tra l’esperienza e la dimora esistenziali, e la ricognizione e la dimora fantastiche: un modo d’illustrazione del vivere… (pp. 115 e 138)

…la consegna di un’unica e molteplice avventura individuale per la sua validità universale, ancorché si riveli tipica di un determinato tempo storico… (p. 106)

…non il suo “parere” di ogni giorno, ma il suo “essere” costitutivo, e perciò non è la somiglianza con certi elementi o motivi o ambienti della vita reale […] che ci fa parlare di autobiografismo quanto piuttosto il modo di giudicarsi e di giudicarli, contrapponendosi a questi, nel collocarli e sistemarli in una mediata prospettiva d’arte… (ibidem)

…autobiografismo con valore “tematico”… (ibid.)

…ripensamento memorialistico della sensibilità e della coscienza […] ricerca di un perfetto accordo tonale… (p. 109)

…La ricerca del tempo perduto, o piuttosto il tornare sui passi già fatti, il ripercorrere chiarificatore la propria vita, pur sospinti dai trasalimenti della memoria e movimentati dalle inframmettenze del cuore, sono guidati da una memoria poetica, cioè da una mente inventiva, che coordina le sue fabulazioni « parlando[ne] » o meglio scrivendo… (pp. 118 e 138)

… i fatti […] Intessuti nelle trame della coscienza, materia viva […] il che naturalmente non impedisce quel controllo critico che avviene nell’esercizio dell’esame delle pulsioni esistenziali e dei processi del vivere… (p. 119)

…la centralità assegnata alla « propria persona » muta il mero raccontare di se stessi nel senso di una resa complessa di interezza: cioè la ‘creazione’ non ‘falsifica’ esteticamente il ricordo, ma lo ristruttura per andare più dentro al suo significato… (pp. 119 e 137-138)

…alla ricerca [di] una personalità nei meandri della coscienza […] novello Ulisse – angosciosamente alla ricerca di nuova « virtute » e di nuova « canoscenza », e prima di tutto della virtù propria e della conoscenza del proprio io, ‘fingendosi’ una interiorizzata realtà particolare… (p. 122)

…Il problema dell’idea-guida che sia anche un sentimento-forza è il problema delle radici affettive, interne, della nostra vita intellettuale che diventa poi quello della verità sentimentale, che deve manifestarsi come autenticità espressiva… (p. 101).

Finché ne avrò facoltà, ricorderò con piacere la sua predilezione per le statue dei “mostri” di Villa Palagonia, nonché il Cantar de mio Cid, letto da ragazzo vagando per le campagne di Bagheria, ci disse un giorno durante una lezione: solo a nominarli, il suo animo s’infervorava, gli occhi s’illuminavano.

Ecco, oggi ai miei allievi vorrei trasmettere qualcosa di simile.

In tempi ferocemente oscuri, densi di una piatta quiete apparente “prima” della tempesta, coltivare – da buon conoscitore della terra in cui si mettono i piedi e le mani – passioni al calor bianco, purificate, può rischiarare una vita.

Grazie, Professore Tedesco.

Palermo, dicembre 2018

 

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